trust e antiriciclaggio

Il cattivo uso del trust in Italia, tra sham trust e trust ‘ripugnanti’

Trust ‘fittizio’ e ‘ripugnante’. Nota a Sentenza della Corte di Cassazione penale (n. 46137/14)

Una recente pronuncia della Suprema Corte (Sentenza della Corte di Cassazione, Sezione V penale, del 7 novembre 2014, n. 46137) in tema di trust c.d. “fittizio”, in quanto istituito con l’unico e accertato fine del disponente di sottrarre i propri beni ai creditori, offre lo spunto per una serie di riflessioni sullo stato dell’arte della giurisprudenza in materia e sul, purtroppo non raro nel nostro Paese, distorto ed illegittimo ricorso ad un istituto le cui finalità e la cui natura sono ben più nobili rispetto all’elusione fiscale o la sottrazione dei beni ai creditori.

I fatti.

Con ordinanza del 14.3.2014 il Tribunale del riesame di Parma rigettava la richiesta di dissequestro di alcuni fabbricati conferiti in un trust, istituito nel febbraio del 2008 dal Sig. X, indagato per diversi reati di bancarotta fraudolenta, contestati in relazione al fallimento – dichiarato nel 2012 – di due S.r.l. dallo stesso amministrate. Il Tribunale, infatti, confermando il sequestro conservativo disposto dal Gip, in tema di impignorabilità dei beni, condivideva la precedente declaratoria di nullità dell’atto costitutivo del trust (sham trust o trust fittizio), improduttivo dell’effetto segregativo proprio dell’istituto, giacché la qualifica di trustee e di beneficiario era rivestita dall’imputato e dalla di lui madre, entrambi titolari originari dei beni conferiti.

Ricorreva per Cassazione il Sig. X lamentando:

a) violazione di legge – in relazione agli artt. 316 e 325 c.p.p., art. 194 c.p., artt. 602 e segg. c.p.c. e art. 11 Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985 –, in quanto i beni sottoposti a sequestro non erano collegati al procedimento penale e le finalità di tutela del credito erariale sussistevano solo nei confronti dell’imputato e non del trust;

b) ulteriore violazione di legge, circa l’art. 2 Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, poiché i giudici avevano incidentalmente ritenuto invalido l’istituto per una coincidenza soggettiva tra disponente e beneficiario, senza, tuttavia, compiere ulteriori indagini.

La Corte rigettando il ricorso, rilevava come “il trust, tipico istituto di diritto inglese, si sostanzia nell’affidamento a un terzo di determinati beni perché questi li amministri e gestisca quale proprietario (nel senso di titolare dei diritti ceduti) per poi restituirli, alla fine del periodo di durata del trust, ai soggetti indicati dal disponente. Presupposto coessenziale alla stessa natura dell’istituto è che il detto disponente perda la disponibilità di quanto abbia conferito in trust, al di là di determinati poteri che possano competergli sulla base delle norme costitutive. Tale condizione è ineludibile al punto che, ove risulti che la perdita del controllo dei beni da parte del disponente sia solo apparente, il trust è nullo (sham trust) e non produce l’effetto segregativo che gli è proprio”.

Nella fattispecie, il Sig. X, nella sua veste di trustee “continuava ad amministrare i beni, conservandone la piena disponibilità (oltre a essere, insieme alla madre e ai familiari, beneficiario)”.

Risultava, dunque, evidente la simulazione dell’atto istitutivo del trust utilizzato “come mero espediente per creare un diaframma tra patrimonio personale e proprietà costituita in trust, con evidente finalità elusiva delle ragioni creditorie di terzi, comprese quelle erariali”.
La pronuncia della Suprema Corte appare pienamente condivisibile.
Com’è noto il trust è un istituto di origine anglosassone (quindi di common law) che non ha una disciplina civilistica interna ed è rimasto pressoché sconosciuto nel nostro ordinamento, fino all’adesione dell’Italia alla Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, ratificata con la legge 16 ottobre 1989 n. 364, ed entrata in vigore il 1° gennaio 1992.

In virtù di tale adesione, lo Stato italiano si è obbligato a riconoscere validità ed efficacia ai trust che presentino alcuni elementi ritenuti essenziali e prescritti dall’art. 2 della Convenzione.
Sinteticamente, con riguardo ai beni vincolati nel trust che essi sono una massa distinta e non sono parte del patrimonio del trustee, il quale ne è intestatario direttamente o tramite altro soggetto per suo conto. Il trustee amministra, gestisce e dispone dei beni in trust secondo le indicazioni dettate nell’atto costitutivo e dalla legge, nell’interesse del beneficiario.

Il trust è, pertanto, un negozio giuridico unilaterale (e non un contratto come spesso nella pratica erroneamente si definisce) che sorge per effetto della stipula di un atto – unilaterale appunto – , con cui un soggetto (settlor o grantor o disponente), trasferisce a un altro soggetto (trustee o amministratore del trust – in genere una trust company), beni e/o diritti con l’obbligo di amministrarli nell’interesse di uno o più beneficiari, ovvero per il perseguimento di uno scopo determinato, sotto l’eventuale vigilanza di un terzo (protector o guardiano), secondo le regole dettate dal disponente nell’atto istitutivo del trust e dalla legge regolatrice dello stesso (spesso la legge di Jersey).

Con specifico riguardo allo sham trust, occorre premettere che il termine “sham” (finto, fasullo) comparve inizialmente a seguito di una pronuncia della Court of Appeal inglese del 1967 (non in tema di trust, ma in materia di “sale and lease back”), per indicare un atto compiuto al fine di ingenerare nei terzi il convincimento che tra le parti fosse stata pattuita una determinata obbligazione contrattuale, differente rispetto a quella effettiva. Con uno “sham contract”, dunque, i contraenti pongono in essere un atto simulato che, nel caso in cui pregiudichi gli interessi dei terzi, comporta una declaratoria di nullità. Occorrerà, in proposito, non limitarsi alla volontà – per così dire – “ufficiale” indicata nell’atto, ma avere riguardo alle circostanze che hanno prodotto tale volontà e, soprattutto, all’effettivo comportamento successivamente tenuto nello svolgimento dei rapporti negoziali. Orbene, per quanto concerne in particolare lo sham trust, queste tipologie di atti sono stati dichiarati simulati (e, quindi, nulli o invalidi o comunque inefficaci), allorquando il disponente aveva mantenuto (per clausole istitutive, o anche successivamente mediante le “letters of wishes” – lettere dei desideri) un controllo rilevante sull’attività compiuta dal trustee, potendosi su tali basi argomentare che, di fatto, non vi era stato un effettivo spossessamento del patrimonio, ma si era perseguito l’unico fraudolento scopo di eludere i diritti dei terzi sul patrimonio del disponente.

Pronunce simili a quella in commento, si sono succedute con grande frequenza nel corso degli ultimi anni, soprattutto da parte dei Tribunali fallimentari che hanno dichiarato la nullità di trusts interni (ovvero quei trusts che deducono beni – come la sede, la residenza dei beneficiari e l’amministrazione – principalmente localizzati in un Paese diverso, nella fattispecie in Italia, da quello il cui ordinamento è stato scelto ai fini della disciplina, in genere quello inglese).

Sono i c.d. “trusts ripugnanti”, definizione data dal Tribunale di Bologna in una nota sentenza del 1 ottobre 2003, per quei trust liquidatori che perseguono fini non compatibili con l’ordinamento giuridico italiano e, come tali, non meritevoli di riconoscimento ai sensi dell’art. 13 della Convenzione dell’Aja, istituiti al solo fine di sottrarre il poco attivo patrimoniale rimasto in aziende in avanzato stato di decozione e destinate quasi certamente al fallimento.

Dette pronunce sono state da ultimo rafforzate anche da un intervento della Suprema Corte (Cassazione civile, sez. I 09 maggio 2014, n. 10105), che, seppur per altre vie, in tema di trust liquidatorio definito “anti-concorsuale”, vale a dire finalizzato a sostituirsi alla procedura fallimentare e ad impedire lo spossessamento dell’imprenditore insolvente, ha stabilito che questo non è riconoscibile e non produce alcun effetto nell’ordinamento italiano in virtù di quanto disposto dall’art. 15 lettera e) della Convenzione dell’Aja del 1° luglio 1985, “ponendosi esso oggettivamente in contrasto con il principio di tutela del ceto creditorio e non consentendo il normale svolgimento della procedura a causa dell’effetto segregativo”.

Orbene in conclusione, da un lato appare inconfutabile il diffuso consenso che il trust, quale strumento di autonomia privata, sta incontrando in questi ultimi anni nell’applicazione pratica, non solo nel diritto commerciale o fallimentare, come nei casi richiamati, ma anche in ambito più prettamente finanziario o nella vita sociale e familiare, rispondendo a problematiche personali ed economiche assolutamente degne di tutela giuridica e ponendo riparo a taluni vuoti legislativi. D’altro canto, tuttavia proprio per garantire tali effetti e porre definitivamente fine a una “demonizzazione” dell’istituto (perlomeno, in Italia), appare necessario censurare chi cerchi di farne un uso distorto e illecito, uso che è a sua volta causa di generalizzazioni e luoghi comuni che contraddistinguono immeritatamente in negativo l’istituto.

Si auspica almeno che le numerose pronunce abbiano un forte impatto sulla prassi, rappresentando un monito volto a disincentivare un uso indiscriminato ed illecito dello strumento partendo dal presupposto, manifestamente errato, che con il trust si possano sovvertire o superare le norme imperative del nostro ordinamento giuridico.

CONSULTA IL TESTO DELLA SENTENZA

Avv. Francesca Fioretti linkedin-32

www.professionegiustizia.it

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